Capitale umano, Organizzazione e Lavoro

Il nuovo lavoro ed i nuovi lavori: attitudini, valori e competenze per l'employability
Intervista di Francesco Venier a Ruggero Frezza

Ruggero tu sei un professore “pentito” che nel 2007, dopo vent’anni di brillante carriera universitaria, hai deciso di abbandonare l’accademia per dedicarti al 100% alla tua vocazione più forte: fare l’imprenditore, anzi, sarebbe più corretto dire fare il meta-imprenditore, dato che il core business della tua azienda principale, M31, è creare nuove imprese high tech e operare a sostegno della loro crescita sui mercati internazionali, combinando servizi di incubazione e capitale di rischio. Proprio per questo, con M31 ti trovi a partecipare come socio in numerose altre imprese innovative, che spaziano dalle tecnologie bio-medicali ai wearable, alla musica, all’Internet of Things, all’engagement dei consumatori, ai veicoli elettrici, alla oftalmologia.

"Mi piace molto la definizione di meta-imprenditore che trovo azzeccata, ora la utilizzerò anche nel mio CV. Grazie.”

Il tuo è certamente un osservatorio privilegiato che offre una prospettiva unica sulla complessità e la profondità delle competenze che servono oggi per lavorare con successo in imprese ad alto tasso di innovazione, sia vecchie che nuove. Sono queste le imprese che hanno maggiori prospettive di crescita e che creano la maggior parte della nuova occupazione pertanto la tua opinione può essere di stimolo per molti, sia lavoratori di oggi e di domani che datori di lavoro e policy maker.
Proprio per questo vorrei provare a ragionare con te sul lavoro che cambia impostando la nostra conversazione su due livelli.
Il primo è quello delle competenze più profonde che costituiscono le premesse per potersi integrare efficacemente nei nuovi contesti di lavoro, il secondo è quello delle competenze tecniche, molte delle quali cambiano da impresa a impresa, ma forse anche in questo ambito possiamo trovare degli elementi comuni.

Partiamo dal primo gruppo quello delle competenze più profonde, dei tratti della personalità, corrispondenti alle attitudini e valori oggi più adatti a ricoprire le mansioni complesse e mutevoli, spesso ambigue, che caratterizzano le organizzazioni di oggi.


Nella tua esperienza qual è il tipo di atteggiamento più efficace verso il lavoro, verso l’organizzazione in cui opera, verso i colleghi e verso le sfide che vanno affrontate assieme, che dovrebbe caratterizzare chi lavora in un’organizzazione che fa dell’innovazione e del cambiamento il suo fattore critico di successo?

“Ti invito a prendere queste mie osservazioni per quello che valgono, e cioè come l’analisi di una semplice esperienza. Di fatto, non sono uno studioso di questi temi e tantomeno vorrei accollarmi l’etichetta di esperto.
Per quanto riguarda la tua domanda devi tener presente che l’esperienza di M31 è particolare, lavorare per una nuova impresa, una STARTUP, non è come lavorare per un’impresa affermata con un’organizzazione consolidata.
In M31 abbiamo lanciato una dozzina di imprese ad alta tecnologia che operano - tutte - su mercati internazionali. Complessivamente con le nostre partecipate hanno collaborato qualche centinaio di persone, la maggior parte con titoli di studio elevati, dalla laurea al dottorato di ricerca.

Come sanno in molti, lavorare per una startup è piuttosto stressante. Le startup sono per forza di cose organizzazioni destrutturate; le persone che si trovano a lavorarvi devono esser pronte ad occuparsi anche di faccende poco inerenti alle mansioni per cui sono state assunte, e questo sempre garantendo una grande efficienza e efficacia nel proprio lavoro.
Ho notato che i collaboratori che hanno dato i maggiori contributi al successo delle nostre partecipate sono quelli che hanno saputo cogliere la visione strategica e adattare il proprio contributo alla situazione del moment, che per una startup è spesso fluida e mutevole.
I migliori collaboratori hanno tutti un gran senso di appartenenza all’organizzazione, che spesso è anche visibile: portano la maglietta con il logo e se non c’è la pretendono. Il successo della comune avventura imprenditoriale è il loro obiettivo. Ammirano i loro stessi compagni di viaggio e li aiutano nei momenti difficili. Di fatto un’impresa è un gruppo sociale che lavora verso un fine comune e chi ha contribuito è perché ha saputo inserirsi nel gruppo. Questa per me è attitudine imprenditoriale.


Mi sembra che oggi, indipendentemente dalle dimensioni dell’organizzazione, le imprese più efficaci e vitali siano quelle fluide e organizzate per obiettivi, come se fossero un insieme di startup.
Sicuramente trovo che la capacità di sviluppare e diffondere una visione, la capacità di collaborare, l’onestà intellettuale - intesa come saper condividere non solo i propri risultati positivi ma anche le difficoltà chiedendo aiuto quando opportuno - siano elementi fondamentali per la crescita di un’impresa.
E poi: la capacità di prendere rischi, curiosità, il critical thinking, la leadership naturale, predisposizione alla circolazione di idee e informazioni, l’attitudine imprenditoriale… tutto concorre alla forza di una impresa.

Perché queste competenze profonde, questi tratti sono così importanti oggi mentre non lo erano nell’industria del passato che competeva solo sull’efficienza e la standardizzazione?

Perché a cambiare è stato il mondo stesso: le competenze profonde servono per un mondo che è diventato più dinamico. Oggi, grazie a internet, la condivisione delle informazioni è rapidissima, quasi immediata. Il mercato si è arricchito di miriadi di nuove dimensioni. Ci sono consumi che prima nemmeno erano immaginabili pensare; ci sono nicchie che dopo qualche anno, per effetto della long-tail, divengono densissime; ci sono processi economici e produttivi che cambiano con un ritmo ineffabile. Tutto è diventato più articolato, più veloce, più
sofisticato. Qualcuno ha calcolato che la conoscenza dell’umanità stia crescendo in modo esponenziale raddoppiando ogni 12 mesi, mentre quella di ciascuno di noi cresce linearmente. In una situazione del genere è chiaro che conta l’attitudine, il saper imparare, la curiosità. La versatilità è fondamentale, si parla di persone con competenze a T, esperte e profonde in un settore, ma capaci di interagire in ambiti multidisciplinari, persone curiose e colte. Per questo, personalmente, ritengo che la formazione classica e umanistica offerta dai Licei sia un vantaggio, da preservare, da proteggere dagli attacchi assurdi a cui è soggetta anche da alcune frange di Confindustria.


La complessità sta crescendo, e grazie all’automazione siamo in grado di gestire sistemi sempre più complessi. Come diceva, Lord Kelvin, “non si può controllare ciò che non si può misurare” perciò questa è l’era delle misure, dei dati. Oggi i brokers dei dati, i vari FAAG (Facebook Amazon Apple Google: le chiamano con questo acronimo i trader americani), carpiscono i dati dei loro utilizzatori. Presto la proprietà dei dati sarà protetta e il loro utilizzo dovrà essere negoziato volta per volta. Si aprono scenari inimmaginabili. È solo un esempio macroscopico, con il quale cerco di dire: come possiamo definire la competenze che ci serviranno nel futuro, anche prossimo?
Senza delle persone in grado di leggere la realtà odierna – che, ammettiamolo, è abbastanza complessa – e, soprattutto, capaci di sfruttare i vantaggi delle tecnologie dell’informazione, come è possibile pensare di crescere?

Le attitudini personali non sono però sufficienti senza un’etica del lavoro forte e adatta a stimolare comportamenti efficaci. Quali valori aiutano il lavoratore a raggiungere meglio i suoi personali obiettivi di sviluppo in un contesto lavorativo innovation based?

Cos’è un contesto lavorativo innovation based?
Un’organizzazione capace di adattarsi rapidamente ai mutamenti del mercato. Credo che per questo sia fondamentale che ciascun componente dell’organizzazione abbia un orientamento alla creazione di valore inteso come “capacità di risolvere problemi degli altri”. In passato la mentalità non è sempre stata questa: si pensava più al lavoro come a un servizio, una collaborazione a termine. Anche la consapevolezza dei propri limiti e saper riconoscere il valore apportato dal resto dell’organizzazione è fondamentale.
Questa per me è attitudine imprenditoriale.
Fortunate le organizzazioni che riescono a mantenere viva l’attitudine imprenditoriale dei propri lavoratori. Sono organizzazioni vive, innovative e resilienti.


La seconda dimensione invece riguarda le competenze tecniche vere e proprie, in questo caso molte sono specifiche e cambiano da settore a settore, ma forse qualche tratto comune esiste.
Ritieni che si possano identificare alcune tecnologie di base, che fungono da piattaforma per tutte le innovazioni che stanno alla base delle imprese che tu sostieni direttamente ed indirettamente con M31?

In M31 abbiamo avuto un parterre molto vasto di competenze. Tanti ingegneri dell’informazione, alcuni eccezionali, ma ciascuno con il suo percorso specifico, chi in visione artificiale, chi nell’hardware, chi nel machine learning, chi nel biomedico… Un tratto comune sono le discipline della cosiddetta Automatica che è definita come l’insieme delle tecnologie e delle metodologie che permettono all’uomo di controllare sistemi sempre più complessi grazie all’automazione.
Trovo che le persone formate in questo ambito abbiano oggi un vantaggio sul mercato del lavoro.


Se queste tecnologie sono i veri abilitatori dell’innovazione e sono alla base di molte delle innovazioni su cui si fondano i modelli di business più efficaci quali
le piattaforme, l’open innovation e gli ecosistemi (business model che peraltro caratterizzano anche le imprese in cui tu stai investendo), possiamo considerare
la capacità di utilizzare queste tecnologie come funzionale al successo di qualsiasi impresa innovativa? Quale livello di padronanza trovi nelle imprese in cui hai investito? Quale livello sarebbe desiderabile nelle diverse imprese?

Utilizzare le tecnologie dell’informazione è, in molti settori, precondizione al successo di ogni progetto.
Abbiamo cercato di immettere la massima padronanza tecnologica possibile nelle nostre imprese, andando a stimolare il lavoro di PhD. e ricercatori che della loro materia devono essere dei maven, il termine yiddish con cui si indica i profondi conoscitori di determinato campo del sapere. Ma l’accelerazione è tale che dovremmo continuare ad inserirne, ma per farlo dovremmo crescere di più e avere talenti a disposizione, ma sono rari e ricercatissimi. Per questo oggi è importante trovarsi inseriti in ecosistemi densamente popolati da diverse specie di competenze.
Il libro “La nuova geografia del lavoro” di Moretti è illuminante in questo senso. Negli “Innovation Hub” del mondo, la Silicon Valley, Londra, Berlino, Singapore, etc. si crea un feedback positivo, i talenti cercano in quei luoghi opportunità adeguate ad esprimere il loro valore, più talenti permettono alle imprese situate negli Innovation Hub di diventare sempre più innovative, di conquistare nuovi mercati e di crescere, attirando così altri talenti e così via. Sarebbe bello riuscire a trasformare il Veneto, il Nord Est in un Innovation Hub, ma non so se sia possibile.

Nella tua esperienza hai notato differenze di approccio tra generazioni oppure la differenza tra le persone riguarda cose diverse dall’anagrafe?

Al netto della naturale perdita di smalto legata all’età, lo spirito imprenditoriale non è legato all’anagrafe, ma all’educazione e all’ambiente in cui si cresce.
Forse il danno maggiore di questi 40 anni di melassa ideologica che hanno appiattito ogni parvenza di meritocrazia, specie nel pubblico a partire dalla scuola, è stato togliere ai giovani la capacità di sognare e il coraggio e l’energia di perseguire i propri sogni. In questo sì, può esserci qualcosa di anagrafico, ma è un bug di software: laddove lo si trova, lo si corregge, ed ecco che abbiamo un nuovo giovane imprenditore, un piccolo uomo che non si è lasciato scoraggiare da quei guardiani della soglia che gli hanno sussurrato, dentro e fuori la sua testa,
che non ne valeva la pena. La cosa fantastica dei millennial è molto spesso questo bug se lo correggono da soli.


Secondo te il sistema educativo è adeguato a queste nuove esigenze?

Mentirei se ti dicessi che il sistema educativo va bene così e sta formando perfettamente i giovani al mondo dell’impresa – o al mondo tout court.
Tuttavia non credo che la soluzione sia insegnare le cosiddette Soft Skills che non si imparano a scuola, ma con l’esperienza. Penso semplicemente che bisognerebbe
disegnare degli incentivi coraggiosi per fare in modo che le Università, in particolar modo, divengano Università imprenditoriali valorizzando l’incredibile ricchezza che creano i suoi ricercatori, studenti e collaboratori. Patrimoni di know how, di scoperte che possono dar luogo a tanti nuovi business innovativi e di impatto nel senso del progresso e della sostenibilità dell’umanità. Ma non vorrei essere interpretato male, non è che ciò dipenda dalle Università, è un tema che riguarda il territorio e la sua governance. Ma è meglio che taccia, tanti studiosi hanno e stanno trattando questi temi, non potrei aggiungere nulla di rilevante. Con M31 ci abbiamo provato e ci stiamo provando, ma servirebbero ben altre competenze e risorse per riuscirci.
Nei limiti dell’esperienza di M31 posso solo dire che il sistema educativo sta sfornando soluzioni per il nostro mondo. Praticamente ogni singola startup creata da M31 è partita dall’Università: si è sempre trattato di imprese che abbiamo costruito attorno a delle tecnologie uscite dai laboratori degli Atenei. Se il sistema educativo sforna la ricerca, siamo già a più della metà dell’opera.
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