Capitale umano, Organizzazione e Lavoro

Progettare e organizzare il remote working tra presente e futuro
L’esperimento massivo di remote working, innescato a inizio 2020 in Italia e nel resto del mondo, continua ad essere ad oggi l’unica soluzione per mantenere operativi i processi lavorativi a fronte di ondate di pandemia e lockdown. La domanda che oggi un’azienda è chiamata a porsi non è solo come gestire il remote working durante epidemia, ma come lo potrà utilizzare post-pandemia, sfruttando l’esperienza fatta.
Una progressiva riconfigurazione fisica e temporale del lavoro era già in atto da
qualche anno, quando le aziende hanno dovuto accelerare i tempi passando al
remote working da casa per mantenere operativi i propri processi organizzativi,
in una situazione di lockdown, come avvenuto nel quartier generale di Microsoft
a Seattle, passato da 40.000 dipendenti a 5000 nell’arco di pochi giorni
a Marzo 2000. I dati di maggio-luglio 2020 sullo stato del remote working
da casa negli Stati Uniti e in Europa indicano una percentuale che va da un
terzo a metà degli addetti intervistati. I dati sull’Italia e il Pentagono, riportati
da Silvia Oliva e Daniele Marini in questo rapporto, dipingono una situazione
altrettanto massiva.
Il passaggio quasi istantaneo al remote working è stato reso possibile dal contestuale
investimento massiccio in tecnologie digitali e di could computing da
parte delle aziende; come dichiara il Ceo di Microsoft Satya Nadell in Aprile
2020 “abbiamo visto due anni di digital trasformation realizzarsi in due mesi” e
una responsabile del personale di un gruppo che opera nel settore fashion del
Pentagono “Ho potuto fare in una settimana un investimento in infrastruttura
tecnologica che avrebbe richiesto anni per essere approvato dal Cda”.
La velocissima riconfigurazione a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi ha
dimostrato di poter garantire l’operatività di una gamma vasta di processi,
interessando un insieme altrettanto ampio di mansioni e professioni, sia
nel settore privato che pubblico.
La domanda che oggi le aziende si pongono è come disegnare al meglio il remote
working in questi mesi, ma la stessa domanda va proiettata a quando,
venendo a cadere l’imperativo del social distancing, non sarà più obbligatorio il
distanziamento dei lavoratori dagli uffici.

Le ragioni del remote working post-pandemia

Ci sono crescenti conferme che le aziende intendono utilizzare il remote working
anche dopo la pandemia, come i dati della survey realizzata da Fondazione
Nord Est e Umana, e ripresa da Silvia Oliva, che indica una risposta positiva
dell’80% del campione o come dichiara una delle responsabili del personale intervistate
“il test è fatto , non si torna più indietro”.

Diversi sono i fattori che spingono a pensare che questo esperimento di remote
working diffuso possa trovare una forma stabile di adozione in futuro.
Un primo fattore è la riduzione dello “stigma” del lavorare da casa, precedentemente
visto con sospetto da manager e imprenditori, che non potendo
controllare “a vista” l’operato dei propri dipendenti temevano una perdita di
controllo su processi e risultati. In secondo luogo, l’esperienza del lavoro da
remoto si è rivelata migliore del previsto sotto il profilo della produttività
dei lavoratori. Questi ultimi, inoltre, pur con alcuni distinguo su isolamento,
work-load e iper-connessione, rispondono che lavorerebbero da casa anche in
futuro, per esigenze di work-life balance e per una riduzione di costi e tempi del
commuting casa-lavoro.

Un terzo aspetto è il notevole investimento in tecnologia e capitale umano
avvenuto in questi mesi, che può dare un miglior ritorno, per aziende
e lavoratori, se utilizzato anche nel medio termine. Infine, tra le ragioni che
potrebbero spingere all’adozione del remote working post-pandemia, vi è la
possibilità di sfruttare innovazioni tecnologiche e organizzative che rendano il
lavoro da remoto ancor più efficace e articolato in tutte le sue forme, come ad
esempio il remote working da spazi di co-working, la cui crescente diffusione,
in Italia e nel Pentagono, è stata illustrata nel precedente Rapporto 2019 da
Montanari e Scapolan.

Serve un disegno organizzativo del lavoro distribuito

Il forzato spostamento del lavoro a casa è stato di recente definito da ricercatori
di Harvard come il più significativo shock organizzativo dei nostri tempi.
Certamente cogliere le opportunità del remote working, in futuro, implica un
nuovo disegno organizzativo, necessario anche per superare i limiti che le soluzioni
adottate cominciano a dimostrare, in questo prolungato utilizzo oltre la
prima ondata. Si tratta di configurare una nuova organizzazione del lavoro che
combini una riprogettazione delle attività lavorative, il ricorso a un set avanzato
di strumenti digitali e un continuo sviluppo di nuove skill digitali e sociali emotive
in manager e lavoratori.
Quali sono le leve di ridisegno del lavoro distribuito nel “new normal”?
Una prima leva riguarda l’allocazione del lavoro, ossia la decisione sul tipo di
compiti affidati ai lavoratori. Da più parti si indica che il remote working consente
di delegare maggiore autonomia, garantendo anche maggiore flessibilità
temporale, con effetti positivi su produttività, motivazione e anche riduzione
del senso di solitudine da casa.
Il lavoro in remoto può essere inteso più come project-based che routine-based,
pertanto l’allocazione di maggiore autonomia è una leva che di per sé richiede
altri interventi contestuali di progettazione organizzativa. In particolare,
vanno individuati adeguati meccanismi di coordinamento tra attività che sono
allocate tra lavoratori a distanza e sono tra loro interdipendenti. Un’attenzione
va posta alla definizione delle interdipendenze che oggi può beneficiare del
coinvolgimento dei lavoratori, laddove l’autonomia consenta lo sviluppo di competenze
e conoscenze sugli obiettivi da realizzare.
Modalità di supervisione diretta via strumenti di videoconferenza tendono
a garantire un monitoraggio naturale e allineato con le pratiche d’ufficio. In
questo caso, tuttavia, si rischia il ricorso eccessivo a un management “by sight”
seppur virtuale, se non vengono messe in atto anche altre modalità di coordinamento
e controllo e se lo stile di leadership non viene ricalibrato rispetto al
nuovo contesto di lavoro e relazionale in forma distribuita. Le ricerche sui team
virtuali ci dicono che i leader sono chiamati a gestire con più attenzione il contenuto
sociale ed emotivo delle relazioni, e d’altro lato sono chiamati a selezionare
i canali digitali più coerenti con il contenuto da veicolare, non sempre i meeting
via zoom sono la modalità più adatta per il coordinamento.

Ad esempio, laddove il lavoro ha un’interdipendenza non elevata, grazie anche
alle tecnologie digitali, il lavoro potrebbe essere modularizzato, scomponendo
le attività in moduli autonomi e definendo le interfacce tecnologiche e procedurali
che segnalando l’avanzamento o il completamento di un modulo, colleghino
i moduli svolti da lavoratori distribuiti.
Il ricorso a strumenti sempre più diffusi di cloud computing (dropbox, google
drive, slack) può consentire di coordinare un lavoro distribuito caratterizzato
da elevata interdipendenza, ricorrendo a forme asincrone che permettano di
passare da un coordinamento che si basa su video chiamate (‘seeing the face’) a
uno che si basa sulla osservabilità del lavoro svolto dagli altri (‘seeing the work’),
ad esempio lavorando sullo stesso documento in asincrono.
Il rapporto face-to-face tra capo e collaboratore rappresenta una leva chiave
di coordinamento, a cui gli altri meccanismi vanno ad aggiungersi, ed è essenziale
anche per favorire le relazioni sociali così indispensabili e messe a dura prova
nel lavoro distribuito. Inoltre, la leadership ha anche una funzione significativa
nel definire un senso di direzione, una “purpose”, particolarmente essenziale
a fronte delle incertezze del contesto e dei continui cambiamenti a cui le
aziende sono sottoposte anche per adattarsi al mutato scenario di business.

Ricalibrare la dimensione sociale, spaziale e temporale del lavoro per un miglior well-being

Il tessuto sociale nel lavoro rappresenta un canale fondamentale per costruire
il senso di fiducia, un buon clima organizzativo e favorire la comunicazione e
la creatività; è pertanto una dimensione che necessita di essere alimentata e
favorita. Tale consapevolezza ha spinto durante il lockdown, a trovare sostituti
funzionali alla co-presenza e allo scambio informale di informazioni e consigli
in corridoio o alla macchina del caffè, utilizzando soluzioni digitali quali i coffee-
break virtuali o tempi pre-meeting per una chiacchierata informale, i quali,
tuttavia, non si sono dimostrati sempre adeguati alla funzione richiesta. Questa
considerazione riporta al centro lo spazio in azienda come strumento di
socializzazione e di costruzione di identità individuale e aziendale.
La centralità di questa dimensione dovrà essere tenuta in considerazione nel
ritorno alla normalità, proprio per non disperdere la funzione di mantenimento
del tessuto sociale del ritrovarsi insieme in azienda. In altre parole, lavorare in
co-presenza dovrà essere valorizzato e arricchito di valenza relazionale,
una volta rientrati, soprattutto in previsione di una presenza che si alternerà
al remote working.
Un attento disegno è richiesto anche per ricalibrare le dimensioni spaziali e
temporali del lavoro con il ricorso al remote working. Recenti ricerche dimostrano
che l’attenzione all’ergonomia del lavoro va estesa alla progettazione
dei luoghi occupati dai lavoratori in casa, dove lo spazio è limitato, non adeguatamente
attrezzato per essere funzionale ad una attività lavorativa per molte
ore. Il disegno dello spazio, dell’uso ergonomico dell’arredamento a disposizione,
delle posture e la scelta di corretti strumenti digitali, fuori dalle mura
d’ufficio, rappresenta una nuova sfida anche in termini di formazione del
personale.

La dimensione temporale richiede altrettanta attenzione. Anzitutto il massiccio
ricorso all’uso di video conferenze rischia di impattare sul benessere dei
lavoratori, quando le attività e i meeting si alternano con una frequenza elevata,
senza i naturali break del lavoro d’ufficio, dovuti anche agli spostamenti da un
ufficio all’altro. Una recente ricerca Ilo-Eurofund indica che i lavoratori impegnati
in remote working sono soggetti a maggiore stress rispetto a quelli stabili
in azienda. Il senso di elevato work-load si accompagna anche al problema del
time porosity ossia la contaminazione del tempo personale da parte del tempo
di lavoro, dovuto alla eccessiva permeabilità da iper-connessione, e indica
l’attenzione da porre al diritto alla disconnessione nel rispetto della linea di
demarcazione tra tempo di lavoro e tempo di riposo, come fattore organizzativo
ma anche culturale.
Infine, un altro elemento su cui porre attenzione è quello che è stata definito
Zoom fatigue affaticamento derivante da video conferenze. L’affaticamento è
associato ai meccanismi cognitivi in atto nelle relazioni mediate da video, come
il fatto che Il cervello legge la comunicazione non verbale mediante «constant
gaze» e questo è decisamente più faticoso a video, a causa di immagini da schermo
non nitide o a problemi di caduta di connessione. La fatica deriva anche dal
contatto visivo prolungato e ravvicinato con altri e con sé, inoltre controllare
schermate con più persone o viceversa visualizzare solo la persona che parla
senza cogliere le reazioni dei partecipanti non attivi, sono altrettante fonti di
stress.
In conclusione, progettazione rappresenta una parola chiave nel presente e futuro
del remote working, ad indicare l’esigenza di un approccio orientato al
ridisegno di processi, dell’architettura tecnologica e delle skills per poter far
leva nel medio termine sulle opportunità offerte da una apprendimento collettivo
senza precedenti.
Blog - L'opinione di Anna Comacchio