Il pentagono dello sviluppo. Presente e futuro (4/4)
La tecnologia
La tecnologia è quindi il driver fondamentale non solo della tutela dei nostri ecosistemi e quindi della nostra specie, ma più in generale della crescita economica futura a livello mondiale. Da questo punto di vista, il ritardo accumulato negli ultimi 30 anni è la ragione principale della bassissima crescita della produttività in Italia.

Le regioni del Pentagono sono nuovamente una eccezione nel panorama italiano, con un lungo elenco di imprese innovative che hanno realizzato processi e prodotti tecnologicamente molto avanzati, ma questo non è sufficiente a proteggerle dai cambiamenti in arrivo. Le prospettive per il futuro non sono infatti positive nemmeno per il Pentagono, e per il Nordest in particolare, per tre ordini di motivi:
• I bassi investimenti nelle tecnologie digitali, inferiori a quelli di altri paesi europei, legati anche alla estesa diffusione di medie e piccole imprese (tecnologie digitali che manifestano i loro effetti benefici sui margini soprattutto con scale di produzione elevate)
• La basse competenze in campo digitale del capitale umano delle nostre regioni
• La scarsa attrattività, con l’eccezione di Milano, per il capitale umano più qualificato.




Ogni anno la Commissione Europea produce un indice, chiamato DESI (Indice della digitalizzazione dell’economia e della società), che misura il livello di sviluppo sia del capitale fisico, sia di quello umano, in campo digitale. L’Italia da anni si colloca agli ultimi posti tra i paesi europei (quart’ultima nel 2018, si veda la Figura 30 e l’articolo di Santolamazza in questo rapporto).
Quel che è peggio è che, nonostante i miglioramenti inevitabili legati alla modernizzazione dei processi produttivi e alla diffusione di nuovi modelli di consumo, il gap con gli altri paesi si riduce in modo impercettibile (Figura 31).




Anche un altro indice, utilizzato nell’articolo di Comacchio e Bacco in questo rapporto, conduce alle
stesse conclusioni. La Figura 32 mostra l’Innovation Index calcolato da Comacchio e Bacco, che misura la performance innovativa regionale nell’ anno 2019 in rapporto alla performance innovativa europea:




Il valore dell’indice per le regioni del Pentagono è inferiore alla media europea e si assesta negli ultimi 2 anni intorno all’87% del valore medio europeo.

Guardando ai valori regionali, si evince che “nel Nordest solo il Friuli-Venezia Giulia ha una performance innovativa 2019 migliore rispetto alla media delle regioni Europee e pertanto può definirsi uno Strong innovator. Le altre regioni si collocano nella fascia Moderate (al di sotto della media europea 50-90%). Lombardia ed Emilia-Romagna, Strong innovators rispetto all’Europa del 2011, hanno perso posizioni in rapporto al dato europeo del 2019. Nel complesso, una perdita di competitività relativa al resto d’Europa rappresenta il fattor comune delle regioni del Nord d’Italia analizzate”.

Senza un rilevante piano di investimenti (un primo passo poteva essere rappresentato dal piano Industria 4.0), che sviluppi infrastrutture digitali, processi produttivi digitali e modelli di consumo che sfruttino appieno le potenzialità del digitale, è evidente che nei prossimi anni il ritardo ora evidenziato permarrà, con rilevanti conseguenze sulla competitività del paese e sui suoi livelli di crescita economica.

Soprattutto perché la rivoluzione digitale avrà impatti importanti sul mercato del lavoro. Impatti che gli articoli di Rullani e Rullani e di Gubitta e Gianecchini in questo rapporto ben analizzano. Rullani e Rullani sottolineano come sia possibile, con adeguate strategie (riecco l’importanza della lezione di Giorgio Brunetti), compensare la perdita di posti di lavoro con lavori di maggior qualità e con maggior benessere individuale. Scrivono infatti. “Dopo due secoli e mezzo di modernità rigida, in cui le macchine hanno meccanizzato l’uomo, la rivoluzione digitale permette di esplorare un nuovo tipo di modernità, flessibile e riflessiva, in cui l’uomo può umanizzare le macchine, investendo sulla collaborazione uomo-macchina, sulla reciproca complementarità nella creazione di nuove forme di generazione del valore. La svalorizzazione del lavoro esecutivo e la sua riconversione graduale in lavoro intelligente deve accoppiarsi allo sviluppo di nuovi modelli di business da parte delle imprese, tali da consentire al lavoro di sperimentare e utilizzare con profitto le nuove capacità da mettere a punto”.

Gubitta e Gianecchini evidenziano invece il pericolo che lo sviluppo tecnologico generi un mercato del lavoro sempre più polarizzato. Con due fenomeni principali: (i) I Millennials che spiazzano le persone Over 40 poiché “la generazione dei Millennials è in prevalenza assegnata alle posizioni di lavoro che richiedono di possedere e utilizzare con maggiore frequenza le skill informatiche, alcune skill digitali (legate a Industria 4.0) e buona parte delle soft skill”; (ii) Chi ha la laurea spiazza chi ha (solo) il diploma, poiché le persone in possesso di un titolo di studio terziario sono maggiormente in grado di “accedere alle posizioni di lavoro che necessitano sia di possedere skill informatiche e digitali sia di sapersi muovere in ambienti organizzativi che necessitano di mobilitare con maggiore frequenza le soft skill”.

Il tema dell’attrattività dei lavoratori qualificati, con formazione almeno terziaria, è strettamente legato ai precedenti. Uno sviluppo tecnologico lento e tardivo impedisce alle imprese di ottenere margini sufficienti a remunerare capitale umano qualificato, che viene perfino ritenuto poco necessario, se non troppo costoso. Questa alimenta la fuga di talenti e fa perdere al territorio uno degli input essenziali per l’adozione di tecnologie, soprattutto digitali, avanzate.
Da questo circolo vizioso si può uscire con un piano di investimenti nella formazione, con un sistema di incentivi all’introduzione di nuove tecnologie, con una riqualificazione del territorio (piano di trasporti e infrastrutture sostenibili), con una fiscalità che favorisca gli investimenti con capitale proprio anziché con debito, con una semplificazione amministrativa che riduca il peso della pubblica amministrazione, in modo da liberare risorse per investimenti. Tutte misure che possono attirare o trattenere nelle nostre regioni talenti e capitali. Stimolando gli investimenti nella trasformazione digitale delle imprese o in nuove
imprese innovative.
Infine, l’articolo di Zotti, illustra la quantità di nuovi strumenti finanziari che la rivoluzione digitale mette a disposizione delle imprese, strumenti che cambieranno in modo rilevante ruolo e dimensione delle banche, creando ulteriori tensioni sul mercato del lavoro e sulla stabilità finanziaria (a questo si lega anche l’articolo di Venier su blockchain). Scrive Zotti: “la tecnologia è elemento abilitante non tanto di innovazione delle caratteristiche tecniche dei prodotti finanziari (si pensi allo sconto fatture, ai finanziamenti non garantiti, etc.), quanto di innovazione delle modalità e dei processi con cui domanda e offerta di fondi si incontrano su piattaforme web (i nuovi mercati multilaterali “istantanei” e “sempre aperti”), consentendo a PMI e finanziatori di superare i confini nazionali in termini di visibilità e accesso al credito”. Sono proprio la piena automazione dei processi di raccolta e analisi delle informazioni (artificial intelligence), la capacità di estendere la base dati valorizzando la digitalizzazione degli scambi e delle relazioni (big data mining), nonché la possibilità di costituire una rete aperta e continua di servizi modulari per le imprese, che evidenziano il potenziale del FinTech per le PMI in relazione all’accesso a fonti di finanziamento alternative”.

Purtroppo, la Figura 33 evidenzia anche in questo campo il forte ritardo dell’Italia rispetto ai principali paesi europei:





Alcune indicazioni di policy
La situazione che abbiamo descritto nelle pagine precedenti identifica una dinamica economica per le regioni del Pentagono a doppia faccia. Da un lato alti livelli di reddito pro-capite, bassi livelli di disoccupazione, forte integrazione con l’Europa più dinamica. Dall’altro, carenza di capitale umano di livello elevato, pochi investimenti in nuove tecnologie, soprattutto digitali, infrastrutture insufficienti, obsolete, inquinanti, complessità normativa e burocratica che attira pochi investitori (si veda l’articolo di Corò e Toschi) e pochi talenti.

È come se nel Nordest si stesse costruendo un ponte di cui sono state completate i primi piloni e le relative campate, ma al momento di poggiare le campate successive, per completare il ponte, ci si accorge di non aver costruito i piloni necessari a sostenerle. E stiamo a guardare, dall’alto dell’ultima campata costruita, lo spazio vuoto davanti a noi.

Con misure che abbiamo un comune denominatore: la ripresa degli investimenti per innovare.
Per costruire i pilastri dello sviluppo economico futuro. La ricetta potrebbe essere riassunta nel modo seguente:

1. Spostare una parte delle risorse pubbliche, regionali e nazionali, dalla spesa corrente agli investimenti (al contrario di quanto fatto negli ultimi anni).
2. Dare vita ad una forte semplificazione burocratica e amministrativa per attirare investimenti sia da imprese italiane che straniere.
3. Introdurre una fiscalità agevolata per gli investimenti, sul modello di Industria 4.0, anche detassando gli utili investiti nella propria impresa o per dar vita a nuove imprese.
4. Indirizzare gli investimenti laddove il ritorno privato si affianca ad un rilevante ritorno sociale: formazione e istruzione, ricerca e innovazione, tutela dell’ambiente, economia circolare, energie rinnovabili, trasporti sostenibili, difesa dal cambiamento climatico.
5. Sostenere con partnership pubblico-private gli investimenti più strategici per il paese, soprattutto quelli in Intelligenza Artificiale, in bio-ingegneria e nelle tecnologie di riuso della CO2 in atmosfera.
6. Sviluppare le infrastrutture di trasporto, energetiche, formative, culturali necessarie ad attirare nel Nord Est investimenti produttivi rilevanti e capitale umano qualificato.

Si noti come gli investimenti ora descritti siano tra loro sinergici. Gli investimenti in una rete di trasporti che crei un attrattore metropolitano facilitano ad esempio la permanenza e l’arrivo di capitale umano qualificato. Questo a sua volta è un prerequisito per sviluppare ricerca e innovazione. Che a sua volta è la condizione per poterci sviluppare in quei settori produttivi e dei servizi ad alto valore aggiunto, centrati su digitale e nuove tecnologie. Settori che a loro volta necessitano di trasporti fluidi e capitale umano qualificato.

In sintesi: investimenti in formazione, innovazione, infrastrutture rendono attrattivo il territorio (grazie alle semplificazioni amministrative e le politiche fiscali di cui sopra). Un territorio attrattivo è quello fertile per investimenti, innovazione, crescita, benessere.

Il circolo virtuoso così innescato non genera soltanto crescita e occupazione, ma è in grado di generare anche le risorse per proteggere le fasce della popolazione e quelle realtà imprenditoriali che saranno penalizzate dalle transizioni (digitali, energetiche, demografiche, mediche) rapide e impattanti che ci attendono nei prossimi anni.

Va da sé che problemi e sfide di questo tipo non possano trovare soluzioni adeguate né a livello pluri-regionale né a livello nazionale, anche se la spinta, l’impulso, dovranno inevitabilmente venire, per quanto detto sopra, dalle regioni
Ma quelle sfide si vincono solo attraverso una forte integrazione europea che dia al mercato interno e alla dimensione d’impresa la scala necessaria per competere a livello globale.
Blog - L'opinione di Carlo Carraro